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Parte sesta | 343 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Cuore infermo.djvu{{padleft:343|3|0]]che era nata, bambina, adolescente, giovanetta, sposa, egli vedeva i capitoli di quella storia, li leggeva parola per parola, in tutta la loro grandiosa semplicità. Comprendeva tutto. Quanto gli era rimasto segreto, ora si svelava; una grande luce si faceva. Ed egli, l’antico egoista, rimaneva meravigliato davanti a tanta grandezza di sacrifizio, davanti a sì mirabile esempio di abnegazione. Si sentiva misero, meschino, colpevole dinanzi a sua figlia. E mentre la verità gli saliva alle labbra, dalle pareti, dai quadri, dal crocefisso, dal lettuccio bianco, dall’inginocchiatoio, in sè stesso, una voce gli susurrava: non dirglielo, padre, il mio segreto; non dirgli perchè sono morta!
Mario Revertera si tacque. Per un’ora ancora Marcello si sfogò nelle divagazioni del suo pensiero, errando nella confusione delle idee che si accavallavano per uscire. Non ebbe risposta. Non un lampo di luce gli illuminò il passato, in cui tentava di far penetrare lo sguardo. Egli ricadde nelle supposizioni. Nulla seppe. Mario Revertera non lo lasciò, che quando lo vide stanco, affranto dallo stesso sfogo, sollevato un poco. Quando ritornava a casa sua, egli chiedeva a sè stesso, se quello che aveva fatto era buono, se egli aveva compita l’opera di sua figlia, se avesse cancellato così una vita fredda e disamorata di padre — e gli pareva che la medesima voce gli susurrasse: Grazie, padre mio.
VI.
Dal terrazzino, nel bel villaggio bianco e verde, sulla collina fiorita, Marcello guardava Napoli, la città che si svolgeva sotto i suoi occhi.