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Parte sesta | 351 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Cuore infermo.djvu{{padleft:351|3|0]]odii e degli amori, dove si ammantavano ipocritamente le colpe o ingrassavano lautamente al sole, dove si nascondevano le virtù solitarie o rifulgevano come gemme, dove cozzavano sempre lo spirito e la materia, la forma e l’idea, il temperamento e la legge, dove continuava la vita affannosa nei piaceri prolungati, nei dolori imbellettati di gioia, nella malinconia di una esistenza esaltata e vuota. Fatalità, fatalità dell’amore! Sempre troppo presto, sempre troppo tardi; mai in tempo, mai in tempo!
— Buongiorno, Marcello — disse una voce accanto a lui.
Egli levò gli occhi. Lalla D’Aragona era là, in piedi, avvolta nei suoi ricchi abiti di lutto, col capo coperto di un velo, sempre pallida, un po’ invecchiata, ma dallo sguardo sempre magnetico. Marcello la guardò senza alcuna meraviglia, ma non rispose una parola.
— Non mi riconoscete?
— Sì, vi riconosco — rispose finalmente lui, senza che nulla si fosse alterato nel suo viso o nella sua voce.
— Vi duole di vedermi presso a voi?
— No, o signora, non mi duole.
— Allora vi fa piacere?
Egli tacque ed il suo sguardo vagò, incerto, sul panorama di Napoli. Quella donna era stata una parte del suo passato; ma veramente egli non la riconosceva più. Gli era lontana, estranea, sconosciuta; anzi gli era stata sempre tale.
— Voi venite spesso qui — riprese Lalla, con una certa dolcezza; — vi ho incontrato più volte.
— lo non vi vidi... — mormorò lui.
— Ella ha sempre dei fiori, dei bei fiori... — disse Lalla abbassando la voce, guardandosi attorno come se temesse d’essere ascoltata.
— Le piacevano assai... negli ultimi tempi... — fu la risposta malinconica di lui.