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80 | Cuore infermo |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Cuore infermo.djvu{{padleft:80|3|0]]splendidi, colori carnali, colori fulgidi, colori riccamente voluttuosi. Brillava la borsa in trama d’oro, brillava la catenella d’oro a cui era sospesa, una catenella che cingeva la vita ed i fianchi; sulla bianchissima pelle del collo i rubini ed i topazi mettevano delle macchiette rotonde, rosee e bionde che si spostavano ad ogni movimento; il diadema scintillava nel suo oro e nelle sue gemme come un’aureola; lo strascico pareva la coda fiammeggiante di una cometa. E mentre Beatrice sembrava una figura di gentildonna evocata dal grande secolo, era intanto una donna viva, bellissima, palpitante. Tutto quell’oro, quel rosso carico, quello scintillìo di pietre preziose, colorivano le sue guancie, accendevano una luce nei suoi occhi grigi: era donna, non figura di quadro. Le labbra arcuate, sollevate agli angoli, avevano lo stesso misterioso e tacito sorriso con cui una donna, Gioconda, l’amante di Leonardo da Vinci, è dipinta al Louvre; ma Beatrice Sangiorgio aveva per sè la vita. Era una donna giunta al punto massimo della sua bellezza, acconciata e vestita in modo che questa bellezza veniva ad essere sviluppata, moltiplicata, illuminata, resa sfolgorante.
Così era apparsa a suo marito. Erano venti giorni dal ballo dell’ambasciata italiana, venti giorni in cui egli aveva cercato di evitare ogni momento di colloquio insieme. Si erano visti sempre dinanzi alle persone, sempre in giro, in una serie mai interrotta, affannosa di piaceri, prendendo pochissimo riposo, non fermandosi mai, in una vita agitata e tormentosa. Ora egli era giunto a temere l’intimità, la solitudine: temeva della sua passione. La sentiva in se stesso profonda, compressa, latente, ma pronta a scoppiare e ne aveva paura. Poi si lusingava ancora, vagamente, senza una speranza decisa, affidandosi al giorno che veniva. Forse in un’ora