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notturno 111

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Ho il petto pieno di grido, e non odo la mia voce.

Il letto oscilla, sbanda, e poi precipita. Un deserto di sasso, sgretolato e forato, viene precipitosamente incontro al mio occhio che non si chiude. Gli attimi sono eterni. La caduta non ha fine.

Ecco il Carso, pallido. Ecco la selva di Tarnova, nera. Ecco l’Isonzo, ceruleo.

Ora mi sembra di percepire nella caduta lo splendore bianco delle mie ossa. La mia bocca è aperta e arida come una di quelle fenditure nel calcare scarnito.

Brucio. Il sudore stilla come un pianto che non trovi più la via del ciglio.


È mezzogiorno. Le vie di Pordenone sono deserte e tristi. Intravedo, in una fuga d’alberi spogli, laggiù, i monti di sublime zaffiro. Un cane

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