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notturno 143

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Parlando della fante, l’infermiera mi dice vividamente: «È venuta senza ombrello! Gocciola come una grondaia. I fiori sono tutti fradici. Bisogna aspettare che s’asciughino.»

La mia continua sete fiuta l’odore umido che sùbito impregna il mio buio. Il cuore mi batte. Prego la pietosa che si avvicini, che mi lasci toccare il fastello. Supplico. Minaccio di strapparmi la benda, di gettarmi giù dal letto. Ottengo.

I fiori sono posati su la rimboccatura. Li ho sotto le mie dita veggenti. Li palpo, li separo, li riconosco.

C’è il giacinto. È legato col filo in fascetti. Gli steli sono ineguali. Insieme formano un grappolo folto. Il profumo al fiuto aumenta come il dolore in una scalfittura.

C’è la zàgara. È il nome arabico che dà al fiore d’arancio la Sicilia

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