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«Vengo. Chi mi chiama?»
Cinque anni d’esilio nell’estremo Occidente, sul dosso pinoso di una duna oceanica: un lungo ordine di giorni e di opere, una lunga pazienza, una lunga attesa.
Come l’amore di mia madre non seppe mai scorgere nella mia faccia la lesione del tempo e della vita, così il mio amore serbava di lei una imagine spiritale e tutelare dove la luce attenuava le fattezze senza confonderle.
Anche la malattia non m’appariva se non come un modo mistico di affinamento, se non come un mezzo ascetico di santità. E non indovinavo da lontano quel che per compassione m’era celato.
Non ho mai avuto paura di soffrire. Di tanta resistenza mia madre mi
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