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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|D'Annunzio - Notturno.djvu{{padleft:416|3|0]]morte, noi che non ci avevamo mai pensato se non nella notte dopo Ognissanti per aspettare che ci portasse i suoi doni.

Scorgevo i moti convulsi delle zampe, e quella balzana mi faceva più male; e il tremito del povero muso bianco mi faceva ancor più male.

Ma non piangevo; e solo dominavo la pena di tutt’e cinque.

Il garzone ruppe in singhiozzi. Ricacciai in gola i miei con non so che sdegno. Vidi che le povere zampe s’erano stecchite.

Ci stringemmo ancor più e ci agghiacciammo insieme, sotto quel cielo di carrozza cupo, in quella luce fioca della rosta. E per la prima volta con dieci occhi fissi guardavamo la morte. Ma io ne serbavo per tutti l’impronta.

Allora mio padre s’alzò, ripassò la soglia, si soffermò volgendosi verso noi sbigottiti; e, sul silenzio gelido

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