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476 notturno

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La Sirenetta conosce minutamente la favola breve del giardino. Sa dov’è il bruco, dove la pecchia, dove il ragno, dove la cetonia, e quel che fanno.

Sa i rami malati, il numero dei bocciuoli; quale sia in ritardo, quale sia per aprirsi.

Si lamenta del giardiniere pigro. Prende un manticetto e soffia una polvere salutare sopra un rosaio brulicante d’insetti verdicci.

Mi conduce con pietà incerta presso una grande rosa bianca a cui una cetonia divora il cuore profondo.

«Perché non la scuoti, non la scacci?» le domando.

«Oramai la rosa è perduta» ella risponde. «E se la cetonia non si sazia di questa, va in cerca d’un’altra.»

Sento che la sua pietà si partisce tra l’insetto e il fiore, come quella del Serafico comprendeva l’uccello vorace e il verme beccato, il fuoco ardente e il vestimento arso, la carne inferma e l’erbe per guarirla premute.

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