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VIII | ANNOTAZIONE |
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Dolorosissimo fu il mio sforzo d’interprete e di trascrittore. Troppo spesso mi pareva di riaprire le mie intime piaghe e di lavorarci dentro coi ferri esatti. Troppo spesso mi pareva che i potenti fantasmi mi saltassero alla gola e mi soffocassero. E, per non poter vincere un orrore quasi corporale, ho tralasciato e abbandonato più d’un fascio di liste.
Ma come qui l’aspirazione è illuminata dalla divinazione! Inerme lo spirito sembra già osare quel che poi oserà armato. Sorgono dal silenzio parole che poi m’avverrà di sentir risalire alle vive labbra esortando compagni e seguaci. E in una delle mie imaginazioni musicali non vibrano le «tre tavole di ponte» dove poi si serreranno i Trenta di Buccari? E nel giro della strofe notturna non ritorna quella cadenza che sarà la legge ideale del combattente rientrato nella «fucina dove si fonde la sostanza nuova»?
E v’è una sola costellazione |
E in quella invenzione del fiume e del guado, condotta a consolare me stesso e l’eroe ribadito alla terra, non è quasi un presentimento di quella riva dove poi piantammo la vittoria «mutilata e sanguinosa contro l’invasore»?
Non vana era la tristezza di quel colloquio pasquale tra l’eletto della gloria e il deluso della morte. Rividi Oreste Salomone laggiù, sul campo di Puglia, alla vigilia del bombardamento di Cattaro. Era venuto seguendo la sua ansia di ridonarsi, perseguitato e attraversato dai sedentarii. Mi chiese ch’io lo prendessi nel mio equipaggio, anche in luogo del mitragliere su la torretta di poppa. Non riesca a superare gli impedimenti opposti. Rimase crucciato e umiliato a terra.
Poi, una notte, in una prova di volo a lume di stelle, appunto con uno dei miei fedeli di Cattaro, col lanciere bianco Mariano d’Ayala, scendendo al campo di Padova, per un errore manuale perse la vita. E con la sua vita restò mozza la cima di un bell’albero.