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156 | daniele cortis |
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Elena si scosse.
«Non credo!» diss’ella.
Sapeva di avere un marito rude, violento, vizioso. Non lo credeva capace di un delitto ignobile.
«Ah, donna Elena!» esclamò Clenezzi con uno sguardo che diceva cento cose. E raccontò che, due mesi addietro, l’avvocato Boglietti, mandatario di un istituto siciliano di credito, era venuto alla presidenza del Senato portando una gravissima accusa contro il senatore Di Santa Giulia. Quell’istituto aveva incaricato lui, suo consigliere d’amministrazione, di esigere un capitale dovuto da una casa bancaria di Roma e di depositarlo presso il Ministero delle finanze per certa cauzione. Di Santa Giulia aveva eseguito la prima parte dell’incarico, non la seconda. Il Consiglio d’Amministrazione, scoperta la cosa, aveva immediatamente chiesto spiegazioni al suo incaricato. Qui c’era un punto buio. Pareva che Di Santa Giulia avesse addotto un pretesto qualsiasi e persuaso con larghe promesse il Consiglio, dove sedevano alcuni suoi aderenti, a non procedere oltre. Ma la cosa si era risaputa fuori e il Consiglio aveva pur dovuto agli ultimi di maggio eccitare Di Santa Giulia alla restituzione del danaro e al risarcimento dei danni entro il 18 giugno, con la minaccia di un procedimento penale per appropriazione indebita. Il barone aveva chiesto allora una rateazione del pagamento, proponendo di sborsare metà della somma il 30 settembre di quest’anno e l’altra metà il 31 marzo 1882. Egli confidava che i suoi amici del Consiglio gli farebbero approvare una convenzione su tale base. Invece l’avvocato Boglietti aveva ricevuto l’incarico di tentare per l’ultima volta una soluzione pacifica,