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«Santo diavolo, è Gaeta qui?

Elena alzò il capo dal guanciale, vide suo marito che spalancava a furia le finestre.

«Che fornace!» sbuffò lui, accostandosi al letto. «Come va?

Elena gli rispose sdegnosamente. Era un bel modo di entrare quello? Il barone aveva il pelo arruffato, la cravatta in disordine, gli occhi lucenti. V’era in quel suo mugghiare una bonarietà di bestione allegro.

«Sei in collera?» diss’egli. «Son tre giorni che non ci vediamo.» E allungò una mano sul letto, le prese un piede.

Elena trasalì, ritirò il piede.

«Lasciami stare» diss’ella.

«Bel modo anche questo!» esclamò il barone. «Caro marito, si dice, come stai bono d’essermi venuto a trovare dopo quel tiro che t’ho giuocato!

Elena non degnò rispondere.

Colui trascinò una poltrona accanto al letto, vi si sdraiò a gambe aperte, sbadigliando.

«Sto bono» diss’egli. «Quanto sto bono!

«Perchè ho questa voce» soggiunse, «perchè ho questa facciaccia di diavolo cefalutano, perchè ci ho addosso il fuoco dell’isola, voialtri pupi del settentrione mi avete per un Sata-liviti, per un Dionigi, che so! Guarda, tu che sei l’angelo del paradiso, che non si è degni di toccarti un dito, tu mi hai ingannato, tu ti sei provata di togliermi la vita, pupattola mia!

«La vita?» interruppe Elena.

«La vita, la vita! Quelle quindici mila lire erano l’onore per me e ti prego di credere che quantunque io sia uno scelleratissimo tiranno, se avessi a per-

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