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376 | daniele cortis |
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«Si è divertito, Clenezzi» diss’egli «alla trottata? Fino a dove siete andati?
Elena gli abbassò il viso sul petto.
«E la mamma?» mormorò.
«Cosa, cara?
«La mamma? Lo sa di questa lettera?
«No, cara. Io non le ho parlato di sicuro.
Tacquero un momento. Poi Lao tornò a dire che oramai doveva proprio andare. Ella alzò il viso, gli sorrise, gli baciò, rizzandosi sulla punta dei piedi, le guance, e uscì.
Si trascinò a fatica nella sua cameretta. Si sentiva talmente male, talmente spossata! Cadde sul letto e vi giacque come morta, bevendo a sorso a sorso anche quest’altro dolore, che il suo segreto non era più suo.
Entrava dalla finestra il vento fresco della sera, l’odor delle rose e del glicine, la ruvida voce dolente del fiume. Dal fogliame agitato delle rose traspariva un chiarore caldo; la camera era quasi scura. Altro non vi si moveva che l’ombra delle foglie inquieta sul pavimento; altro non si udiva che il correr trepido di un piccolo orologio invisibile. Elena sognava ad occhi aperti: era malata e non poteva muoversi dal letto; egli veniva a tenerle compagnia, a leggerle. Passavano mesi in questo stato, passavano anni ed ella diceva a sè stessa: «Vedi come sei cattiva? Tu non credevi che il Signore si occupasse di te, ed egli è stato invece tanto buono con te.» Ecco, Daniele era lì seduto accanto al letto, leggeva con la sua bella voce grave, la guardava ogni tanto, le sorrideva, le posava pian piano le labbra sui capelli; ah! Stese le braccia, lo chiamò sottovoce: