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Vennero ad avvertire che la carrozza era pronta.

«Andiamo» grugnì il barone.

Lao strinse la mano a sua nipote e rientrò in casa.

Malgrado il bengala non ci si vedeva molto presso la carrozza ferma tra la scuderia e le poderose magnolie che cingono il prato da quella parte. Contadini, servi, ragazzi, si accalcavano intorno ai cavalli. C’era della confusione. La Perlotti non trovava la sua borsa da viaggio, temeva fosse caduta fra le ruote.

«Faccio accendere un bengala!» gridò Grigiolo.

Elena gli prese il braccio, glielo strinse forte.

«No, no» diss’ella con voce piena di lagrime.

Seguirono i baci e gli addio. La vecchia balia di Elena, moglie del gastaldo, singhiozzava. Tutti erano a posto, mancava solo la borsa della contessa Sofia. Finalmente venne in chiaro ch’era stata collocata per errore sulla carretta dei bauli d’Elena, partita mezz’ora prima.

«Andiamo!» disse ancora il barone. «Complimenti a tutti questi signori.

I cavalli s’impennarono, la ghiaia stridette sotto le ruote pesanti. Nell’entrar sotto il portico, Perlotti agitò il cappello e sua moglie il fazzoletto; le ruote, le zampe ferrate dei cavalli tuonarono un momento sul ciottolato, sulla soglia del portone, e subito il suono morì nella campagna oscura.

Ma Grigiolo e un suo aiutante corsero sotto il colossale abete che dal ciglio dell’altipiano stendeva le sue frange nere sulla valle. Quando la carrozza passò lì sotto, lungo il Rovese, un fuoco bianco di bengala, come un’occhiata di sole nella notte, mostrò, in alto, a Elena il vecchio albero inclinato sul pendìo.

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