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108 | il figlio del reggimento. |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|De Amicis - La vita militare.djvu{{padleft:116|3|0]]battaglione col caffè, col rum, o con altro che fossimo assuefatti a pigliare, e: — Signor ufficiale, — diceva con quella sua vocina rispettosa, — è ora.... — Ora di che? — si brontolava noi con voce aspra e arrantolata, soffregandoci gli occhi. — Ora che si levino. — Ah! sei tu Carluccio? Qua la mano. — E gli davamo una stretta di mano che lo metteva di buon umore per tutto il giorno.
Contendeva il compito alle nostre ordinanze, voleva spazzolar panni, lustrar bottoni e sciabole e stivali, lavar camicie e pezzuole: volea far tutto lui, e pregava umilmente ora l’uno ora l’altro soldato che per piacere gli dessero qualcosa da fare, che lui avrebbe fatto tanto volentieri, e che si sarebbe anco ingegnato di far bene, e che a ogni modo bisognava ch’egli imparasse, che aveva bisogno d’imparare, che voleva imparare. Qualche volta noi eravamo costretti a levargli gli oggetti di mano, e a dirgli con una certa severità: — Fa quel che ti si dice di fare, e non cercare più in là. — E bisognava fare i severi perchè in buona coscienza non potevamo permettere ch’ei pigliasse l’uso di farci il servitore. Perchè, povero ragazzo? L’avevamo forse condotto con noi a tal condizione? Egli aveva un gran timore che a poco a poco lo pigliassimo in uggia, comunque non si facesse che colmarlo di carezze e circondarlo di cure e di cortesie; gli pareva che, a non lavorare, ei dovesse finire col parerci un aggravio inutile, e però si sforzava di mostrarci ch’era pur buono a far qualcosa o che, se non altro, aveva del buon volere. Pure il timore di parerci importuno qualche volta lo assaliva e gli dava pena. Tratto tratto, mentre mangiava con noi seduto in terra attorno a un tovagliolo steso sull’erba, accorgendosi improvvisamente d’esser guardato, si vergognava di mangiare, diventava un po’ rosso, abbassava gli occhi, faceva