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136 il figlio del reggimento.

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— E la morale? — io domandai al mio amico appena ebbe detta l’ultima parola.

— La morale, — mi rispose, — è questa. Vi ha un segreto per cui la vita del soldato, anche quando è più dura e penosa, possiamo farcela parer bella e contenta; è il segreto che ci dà il vigore nelle fatiche, la costanza nei sacrifizi, l’ardimento nei pericoli, e una forte e serena tranquillità in faccia alla morte; e questo segreto è tutto compreso in una parola.... Amare!

Io gli strinsi la mano.

— Se mai ti piglierà vaghezza di scrivere questo racconto, — egli soggiunse — e se, avendolo scritto, te ne verrà alcuna lode, ti prego di non farne un merito a me; io non ti avrei raccontato nulla, o t’avrei fatto un racconto freddo e sbiadito, se l’amicizia che strinsi poco tempo fa con un bel ragazzino, affettuoso e gentile come Carluccio, non mi avesse ravvivate nella memoria tutte le particolarità di quel fatto, e ridestata nel cuore quella fiamma di affetto che era necessaria perch’io te le narrassi con un po’ di vivezza. Il merito del lavoro, se merito avrà, sarà in parte tuo e in parte di quel caro ragazzo. Egli ha nome Ridolfo. Te lo dico pel caso che tu volessi dedicargli, in mio nome, il tuo racconto, e aggiungere in fondo all’ultima pagina queste mie parole, acciocchè, dov’egli le legga, si ricordi di me. —

Dunque io dedico il racconto a te, caro Ridolfo; è poca cosa; ma tu che sei tanto buono, baderai soltanto a quel che v’è di meglio: il cuore.

Vogli un po’ di bene a me pure, caro bambino. Addio.

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