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L’UFFICIALE DI PICCHETTO.



Dopo aver fatto battere i colpi del silenzio, l’ufficiale di picchetto diede un’occhiata in giro al cortile del quartiere, non c’era più nessuno; s’affacciò alle scale che mettono ai cameroni, nessuno; alzò gli occhi ai terrazzini, nessuno; uno sguardo al portone, chiuso; una sbirciata nel corpo di guardia, c’erano tutti; i lumi sui pianerottoli e nei corridoi c’erano, le sentinelle c’erano, i piantoni c’erano; tutto era in ordine, tutto era quieto, il reggimento dormiva. Che restava da fare all’ufficiale di picchetto? Niente, dormire. E così pensò di fare. Volse ancora una volta gli occhi intorno, di sopra, di sotto; si avvicinò alla porta della cantina, la tentò colla mano, era chiusa; tese l’orecchio, nessun rumore. — Ora me ne posso andare a dormire, — disse fra sè, e si mosse verso la sua camera. Mormorò prima qualche paroletta nell’orecchio al sergente di guardia: — Siamo intesi, eh? — e avutone in risposta un rispettoso: — Non dubiti! — accompagnato da un posar della mano sul petto in atto di coscienziosa promessa, entrò, chiuse, si levò berretto, sciabola, sciarpa, si accostò al letto, accomodò la rimboccatura delle lenzuola, portò la destra al primo bottone della tunica... Ma — e la ronda? — pensò facendo un lieve cenno col capo come se movesse la domanda ad un altro; e, preso il lume in atto dispettoso, si andò a piantare diritto

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