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36 l’ospitalità.

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Tutti tacquero e si guardarono l’un l’altro in viso.

— Qua! — gridò improvvisamente il padrone colla voce commossa, strappando di mano al soldato il suo pane e battendolo forte sulla tavola; — lo mangeremo assieme; sedete. —

Quell’atto, quella voce, quel volto erano improntati di un affetto e d’un’emozione così viva e così risoluta, che al soldato non parve più possibile di ricusare, e sedette.

Non sapeva dove metter le mani, non s’attentava a levar gli occhi in volto a nessuno, non ardiva nemmeno di guardare sulla tavola; guardava fisso il piatto che gli stava davanti, teneva le ginocchia strette e i piedi indietro indietro sotto la seggiola, e gingillava colle dita intorno ai bottoni del cappotto. Comunque ei nol guardasse, pure tutto quel cristallame svariato e luccicante lo abbarbagliava; quel bel tovagliolo fine, bianco, che odorava ancora di bucato, non aveva il coraggio di toccarlo, con quelle sue mani ruvide e nere. E gli si cominciarono a svegliare nella mente certi ricordi vaghi e confusi e da lungo tempo sopiti, di certi modi, di certe consuetudini, di certe norme di buona creanza e di cortesia, di cui molti anni addietro, quand’egli era ancora ragazzo, sua sorella maggiore, che avea soggiornato un pezzo in città, gli soleva fare in fretta un po’ di scuola su per le scale della casa del fattore, quei giorni di festa solenne ch’essi erano invitati a desinare da lui. E cercava di richiamarsele a memoria quelle norme, quelle consuetudini, e si sforzava di metterle in pratica con quel miglior garbo che per lui si potesse, e guardava tratto tratto colla coda dell’occhio il padrone di casa che gli era seduto accanto per regolarsi da lui sul modo di tenere il tovagliolo, e di spezzare il pane, e di maneggiare il coltello, e via via. A ogni piatto che gli

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