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IL PIÙ BEL GIORNO DELLA VITA.


Chi non ha provato quel senso di tedio stanco e quasi melanconico, che ispira una città grande, a guardarla dall’alto d’una collina, dopo il tramonto del sole, quando la si vede come a traverso un velo di nebbia, e ci presenta l’immagine d’un’ampia macchia biancastra che svanisce a poco a poco sul fondo bruno della valle? Quella moltitudine di case d’ogni forma e d’ogni grandezza, agglomerate, strette, che par che si pigino e si opprimano, e le une escan fuori dalle altre, e le ultime s’innalzino sui tetti delle prime, e facciano a sovercharsi a vicenda e a rubarsi l’aria e la luce; e tutte quelle finestre che viste così di lontano paion buche; e i terrazzini, stie; e le piazze, cortili; e le strade, chiassuoli; e la gente, formiche; oh che spettacolo uggioso e meschino in confronto di quello che ci si offre allo sguardo volgendo intorno la testa: questi bei colli, questa bella verzura, quest’aria pura ed aperta. Oh qui si vive, qui ci si sente dilatare le vene, e le arterie battere in armonia, e tutte le potenze vitali esercitarsi con un attrito tanto soave! Ma laggiù, Dio mio, là dentro, in quel formicolaio, in quell’aere corrotto, in mezzo a quello strepito, come si fa a vivere! come si fa a respirare! come resiste a starci tutta quella gente! E io dovrò ritornar là? Oh se avessi una villa anch’io!

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