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448 | il più bel giorno della vita. |
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Il giovane sedette.
— In questi tre giorni dacchè sei venuto, io non t’ho ancora potuto tenere fermo un’ora, qui, a quattr’occhi, per farmi raccontare per filo e per segno come sia andata tutta questa faccenda.... che s’ha da concludere quest’oggi. Dalle lettere ho capito qualcosa, ma poco e male; vorrei sapere le cose chiare e netto. Vedi di stare fermo e quieto un momento, e di’ su tutto per bene; tanto prima dell’otto non l’hai da vedere; adesso dorme, m’immagino, che sarà stanca di ieri, e poi ci vorrà un po’ di tempo prima che sia vestita per andare.... Sentiamo dunque, e mettiti il cuore in pace un momento; già essa non ti scappa, lo sai. —
Il giovine rise, si fece scorrer due o tre volte le mani sulle ginocchia, si fece serio, poi di nuovo rise, e finalmente cominciò a parlare. Il colonnello appoggiò un gomito sul tavolino e il mento sulla mano. — Sentiamo queste grandi avventure.
— Ecco come l’è andata, signor colonnello; le dirò tutto, e lei abbia la bontà di compatirmi se parlo male. Eravamo di guarnigione a Savigliano, due battaglioni di bersaglieri, sul finire del cinquant’otto, come lei già sa. La città non è brutta, la gente ha buon garbo coi soldati, e c’era poco da fare; io ci stavo volentieri e il tempo passava presto. Quattrini da casa non me ne lasciavano mancare, e io, i giorni che non ero di servizio, appena mangiato il rancio, me ne andavo ad aggiungervi un’insalatina di lattuga dal vivandiere, e uscivo di caserma contento come una pasqua. I superiori chiudevano gli occhi, io portavo un pennacchio lungo così, e tutta la roba accomodata per bene al mio dosso, e faceva anch’io la mia figura. In quelle ore d’uscita, passeggiavo la città in lungo e in largo con quattro o cinque camerata, quasi sempre li stessi, o s’andava a fare un giro