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Erano due nemici mortali.
L’Ambasciatore, che li conosceva e li aspettava, chiamò l’interprete, sedette e cominciò l’interrogatorio.
Erano venuti a chiedere un giudizio.
Il nero era una specie di fattore del vecchio gran sceriffo Bacali, uno dei più potenti personaggi della corte di Fez, proprietario di molte terre nei dintorni d’Alkazar. L’arabo era un uomo della campagna. La loro lite durava da un pezzo. Il nero, forte della protezione del suo padrone, aveva fatto più volte incarcerare e multare l’arabo accusandolo, e sostenendo l’accusa con molte testimonianze, d’avergli rubato cavalli, bestie bovine, derrate. L’arabo, che si diceva innocente, non trovando nessuno che osasse pigliar le sue difese contro il suo persecutore, un bel giorno aveva abbandonato il suo villaggio, era andato a Tangeri, aveva chiesto quale fosse l’Ambasciatore più generoso e più giusto, e inteso nominare l’Ambasciatore d’Italia, era andato a sgozzare un agnello davanti alla porta della Legazione, chiedendo in questa forma sacra a cui non si può opporre un rifiuto, protezione e giustizia. L’Ambasciatore l’aveva esaudito, s’era intromesso per mezzo dell’agente di Laracce, s’era rivolto alle autorità della città d’Alkazar; ma per la lontananza sua, per gl’intrighi del nero, per la