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Da qualche giorno, passeggiando per Fez, mi si affaccia alla mente con una persistenza ostinata l’immagine d’una grande città americana, alla quale accorre gente da ogni parte del mondo, una di quelle città che rappresentano quasi il tipo a cui tutte le città nuove si vanno lentamente informando, e la cui vita è forse un esempio di quello che sarà fra un secolo la vita di tutte; una città la cui immagine non si può presentare a nessun europeo, accanto a quella di Fez, senza farlo sorridere di pietà, tanto è grande la distanza che le separa sopra la via del progresso umano. Eppure, più mi fisso col pensiero in quella città, più mi sento preso da un dubbio che mi rattrista. Vedo quelle grandi strade, diritte e interminabili, in cui s’innalzano a perdita d’occhi i pali giganteschi del telegrafo. «È l’ora della chiusura degli opifici e delle botteghe. Torrenti d’operai, uomini, donne e ragazzi, passano a piedi, in omnibus, in tramway, seguendo quasi tutti la stessa direzione, verso i quartieri lontani; e tutti hanno l’aspetto triste e ansioso e sembrano estenuati dalla fatica.... Nuvole dense di fumo di carbone escono dalle innumerevoli torriccine degli opi-

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