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Il tragitto dalla Mduma a Mechinez fu un seguito d’inganni e di disinganni ottici così singolari, che se non fosse stato il caldo soffocante, ce ne saremmo immensamente divertiti. A due ore infatti, o poco più, dall’accampamento, vedemmo lontano in mezzo a una vastissima pianura nuda, biancheggiare vagamente i minareti di Mechinez, e ci rallegrammo pensando che ci saremmo presto arrivati. Ma quella che ci pareva pianura, non era invece che una successione interminabile di vallette parallele, separate da larghe onde di terreno tutte eguali d’altezza, che presentavano l’aspetto d’una superficie continua; per cui, andando innanzi, la città si nascondeva e ricompariva continuamente, come se facesse capolino; e oltre a ciò, le valli essendo dirupate, rocciose e non attraversabili che per sentieri serpeggianti e difficili, il cammino da farsi era almeno doppio di quello che, a primo aspetto, avevamo giudicato; e sembrava che la città s’allontanasse via via che ci avanzavamo; e in ogni valle si apriva il cuore alla speranza, e sopra ogni altura si tornava a disperare, e sonavan voci alte e fioche e sospiri lamentevoli e irosi propositi di rinunzia a qualunque futuro viaggio nell’Affrica, fatto con qualunque scopo e in qualunque condizione; quando, come Dio volle, uscendo da un bosco d’olivi selvatici, ci vedemmo dinanzi all’im-

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