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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|De Amicis - Marocco.djvu{{padleft:73|3|0]] strano ancora quello spettacolo selvaggio, irradiato dalla luce sfolgorante del mezzogiorno.

La curiosità mi spingeva da dieci parti in un punto. Ma un grido d’ammirazione, partito da un gruppo di donne, mi fece correr prima dai cavalieri. Erano dodici soldati di alta statura, col fez a punta, la cappa bianca, i caffettani aranciati, azzurrini e rossi, e fra loro un ragazzo vestito con femminile eleganza, figlio del governatore del Rif. Si schieravano ai piedi delle mura della città, rivolti verso la campagna; il figlio del governatore, nel mezzo, alzava la mano, e si slanciavano tutti insieme alla carriera. Nei primi passi v’era un po’ d’incertezza e un po’ di disordine. Poi quei dodici cavalli, stretti, sfrenati, ventre a terra, non formavano più che un solo corpo, un mostro furioso, di dodici teste e di cento colori, che divorava la via. Allora i cavalieri, inchiodati sulle selle, colla fronte alta, colla cappa al vento, alzavano i fucili sopra la testa, li stringevano con un movimento convulso contro le spalle, sparavano tutti insieme gettando un urlo di trionfo e di rabbia, e sparivano in un nuvolo di polvere e di fumo. Pochi momenti dopo tornavano indietro lentamente, in disordine, i cavalli schiumosi e insanguinati, i cavalieri in atteggiamento stanco e superbo, e in capo ad alcuni minuti ricominciavano. Ad ogni nuova scarica,

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