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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|De Amicis - Marocco.djvu{{padleft:75|3|0]]teste, come se nessuno la toccasse, e fosse rigirata in quella maniera da due venti contrarii. E tutto quel movimento non era accompagnato nè da una parola, nè da un grido, nè da un sorriso. Vecchi e ragazzi, eran tutti egualmente seri, silenziosi e intenti al gioco, come a un lavoro obbligato e triste, e non si sentiva che il suono dei respiri affannosi e il fruscìo delle pantofole.
A pochi passi di là, in mezzo a un altro circolo di spettatori, ballavano dei neri, al suono d’un piffero e d’un piccolo tamburo di forma conica, battuto con un pezzo di legno ritorto a mezzaluna. Erano otto omaccioni, neri e lucidi come l’ebano, senz’altro addosso che una lunga camicia bianchissima, stretta alla cintura da un grosso cordone verde. Sette si tenevano per mano, disposti in cerchio, l’ottavo era in mezzo, e ballavano tutti insieme o piuttosto accompagnavano la musica, senza quasi cangiar di posto, con un movimento di fianchi da non descriversi, che mi metteva un forte prurito nelle punte dei piedi, e quel sorriso di satiri, quell’espressione di beatitudine stupida e di voluttà bestiale, che è tutta propria della razza nera. Mentre stavo guardando questa scena, due ragazzi di una decina d’anni ciascuno, ch’erano fra gli spettatori, mi diedero un saggio della ferocia del sangue arabo, che non dimenticherò per un