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Le confessioni della morta distruggevano questo sospetto. Il Ferpierre amava credere che, se la narratrice non fosse stata felice, se avesse sentito d’essersi ingannata sposando il conte d’Arda, lo avrebbe confessato schiettamente, interamente; ma poichè ella aveva riconosciuto una volta di sentir cose che non poteva scrivere, forse non avrebbe nettamente dichiarato il proprio inganno; fors’anche, invece di adombrarlo, non avrebbe più scritto nulla, ed il silenzio sarebbe stato ancora più eloquente. Ma, non che tacere, non che alludere al disinganno, ella insisteva tanto nelle manifestazioni d’un affetto ingenuo e caldo ad un tempo, che il giudice non poteva dubitare della sincerità di lei. Del resto quell’amore d’una giovane di vent’anni per un uomo d’oltre quaranta era proprio incredibile? A spiegarlo il Ferpierre non teneva tanto conto delle qualità morali dello sposo quanto delle fisiche; e fra le carte rinvenute presso la defunta egli aveva visto alcune fotografie di parenti e d’amici, due delle quali, per dichiarazione di Giulia Pico, erano del conte: la figura di quell’uomo aveva una bellezza così forte e nobile, così piena di espressione, che l’amore della giovane sposa ne restava giustificato. E per lunghe e lunghe pagine ella non parlava d’altro: narrava orgogliosa tutte le prove d’amore datele dal marito, trascriveva le sue parole innamorate, esultava nel vederlo oramai ricreduto, nel sapere suo padre sicuro della

loro felicità.

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