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232 | spasimo |
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Ansante, ella tacque.
— E non ne siete pentita?
— Non ne sono pentita. Ella era vinta dalla vita, voleva e doveva morire. Egli doveva essere libero d’attendere all’Opera. Li ho liberati entrambi.
E il Ferpierre riconosceva finalmente la verità già sospettata.
Ora tutto si chiariva, tutto si concatenava logicamente. La rea non voleva convenire che, oltre lo zelo settario, anche la gelosia l’aveva armata; ostentava di ricusare l’attenuazione del suo crimine per gloriarsi d’essere inaccessibile agli interessi personali. C’era in questa rinunzia una fosca grandezza che dava la misura della forza di quell’anima; ma, senza dubbio, anche l’amore disconosciuto aveva dovuto spingerla contro l’Italiana. Il pentimento del principe, la sua condotta ambigua degli ultimi mesi, il suo dolore dopo la catastrofe, tutto si spiegava. Negando d’essere l’amante della nihilista egli aveva detto la verità. L’aveva ammesso forzato da lei, per secondarla, per salvarla, quando ella credeva di potersi salvare così. Anche le ultime parole della contessa, quell’invocazione alla morte liberatrice, quell’incitamento rivolto alla minacciosa rivale, erano la naturale soluzione del contrasto fra l’incapacità d’uccidersi e il bisogno di
morire dal quale ella realmente era stretta. La rea non aveva ragione?