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spasimo 273

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Tutta la severità dei suoi giudizii si ritorceva allora contro sè stesso. Chi era egli che presumeva condannarla? E perchè l’aveva condannata se non perchè gli si era sottratta? Che altro se non la passione dell’egoista, l’inappagata rapace passione lo faceva severo contro la memoria di lei? Null’altro se non il sofisma della presuntuosa passione gli diceva che l’impegno da lei preso non era valido e che dimenticandolo per mettersi con lui ella sarebbe stata nell’onesto e nel giusto! Egli che la voleva perfetta non aveva, come tutte le creature umane, più di tante altre, le sue debolezze e le sue colpe?

Da questi opposti pensieri usciva finalmente rassegnato alla realtà inesorabile, disposto a riconoscere che se la povera morta non era stata così bella come l’amorosa fantasia glie l’aveva dipinta, non era stata neppure così trista come l’aveva veduta nel rancore dell’abbandono. Nondimeno egli restava mortificato e dolente. La rinunzia alla perfezione imaginata gli era grave. Egli diceva a sè stesso che nessuno al mondo è perfetto; ma perfetta voleva poter credere ancora la sorella sua d’elezione. E tutti i suoi sforzi per glorificare, o almeno per legittimare il volontario sacrifizio restavano vani.

Non era vero che dandosi la morte ella si fosse redenta. La redenzione è nella vita, non nella morte. La morte non risolve il problema morale,

lo evita.

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