< Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.

— 156 —

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu{{padleft:162|3|0]]come un volto d’alabastro sul cielo verdognolo del crepuscolo tiepido. È la stessa luna che vedevo salire sul solitario orizzonte nuorese, è lo stesso viso rotondo e melanconico che vedevo affacciarsi sopra le roccie dcll’Orthobene, ma come ora mi sembra più dolce, diverso, quasi sorridente!»

E di nuovo, appena impostata questa prima epistola, egli sentì un impetuoso desiderio di correre all’aperto, e salì sul colle di Bonaria.

Una dolcezza orientale calava con la sera splendida; il viale che conduce al Santuario era deserto, e la luna cominciava a brillare attraverso gli alberi immobili: il cielo di un azzurro verdastro prendeva, sopra la linea madreperlacea del mare, una tinta d’un verde inverosimile, e nuvole rosse e violette lo solcavano.

Pareva un sogno.

Anania si fermò davanti al Santuario, e guardò il mare: le onde riflettevano la luminosità del cielo, delle nuvole colorate e della luna, e venivano ad infrangersi sotto il colle, come enormi conchiglie di madreperla che arrivate alla riva si scioglievano in liquido argento. E le barche veliere, allineate sullo sfondo luminoso, parevano ad Anania immense farfalle scese a riposarsi sull’acqua.

Mai egli si sentì felice come in quell’ora: gli pareva che la sua anima fosse luminosa come il cielo, grande come il mare.

Al bagliore della luna e dell’estremo crepuscolo decifrò qualche frase della lettera di Mar-

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.