< Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.

— 182 —

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu{{padleft:188|3|0]]chiedere nè aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a sè stesso.

S’alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita.

— Prendilo pure, l’ombrello. Ma perchè vai? — chiese l’altro, sbadigliando.

Egli non rispose.

Sulle scaie buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell’acqua sull’invetriata del tetto: pareva il rombo d’una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell’imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sucidi: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell’oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa.

Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d’esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore.

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.