Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 228 — |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu{{padleft:234|3|0]]tuto, stendendo il braccio, sfiorare la luna o stringere nel pugno il canto dei grilli...
Ma poche parole pronunziate da Margherita gli segnarono nuovamente i confini tra il sogno e la realtà.
— Cosa dirai a mio padre? — ella chiese, sempre un po’ canzonandolo. — Dimmi dunque che cosa gli dirai. «Signor padrino.... io... io e.... e sua figlia.... sua figlia Margherita... fa.... facciamo una.... una cosa...»
Egli arrossì: capì che non avrebbe mai avuto il coraggio di presentarsi al padrino per rivelargli il suo amore.
— Io non potrò mai.... — confessò subito. — Gli scriverò.
— Oh, questo poi no! — disse Margherita, facendosi seria. — Bisogna assolutamente parlargli: egli si piegherà di più. Se non puoi tu, mandagli qualcuno.
— Ma chi?
Margherita disse timidamente: — Tua madre.
Egli capì che ella alludeva a zia Tatàna, ma il suo pensiero corse all’altra e gli parve che anche Margherita ci pensasse. L’ombra lo riavvolse: ah, sì, la realtà ed il sogno erano ben divisi da terribili confini: un vuoto, eguale a quello che divide la terra dal sole, li separava.
— Tuttavia.... — egli pensò, — se potessi in questo momento parlare! Questo è l’attimo: se me lo lascio sfuggire forse non lo ritroverò mai più. Il vuoto si può varcare...