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padrona e servi | 137 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Deledda - Chiaroscuro.djvu{{padleft:143|3|0]] una vana chimera. Chissà quante inquietudini l’eredità dello zio gli riserbava: intanto s’era degradato!
E tornò indietro: trovò le scarpe dove le aveva lasciate, e stette a lungo guardandole istupidito. Che fare? Anche a nasconderle, a seppellirle, il fatto non si cancellava. Egli aveva rubato e il ricordo dell’attimo in cui carponi sul pavimento aveva palpitato come una bestia paurosa non avrebbe mai più cessato di gettare un’ombra sulla sua vita.
Riprese la refurtiva sotto il pastrano e ritornò al paese, attardandosi in modo da arrivare verso sera. Da ventiquattr’ore non mangiava, e si sentiva così debole che il vento lo piegava come un filo d’erba. Arrivò come in sogno alla locanduccia, pronto a confessare la sua colpa; ma là tutto era tranquillo, nessuno parlava del fatto, nessuno badò a lui e al suo pastrano. Mangiò e chiese un letto: gli assegnarono quello della notte avanti ed egli dopo aver rimesso le scarpe al posto donde le aveva prese si addormentò. Un sonno che pareva di morte: dovettero svegliarlo e gli dissero ch’era mezzogiorno. Egli comprò un pane, coi due soldi che gli avanzavano, e riprese il viaggio.
Di nuovo il tempo era bello e la brughiera chiusa fra i monti neri e il mare azzurro aveva un incanto melanconico di paesaggio primordiale: tutto era verde e forte, ma come in certe esistenze umane pareva che mai nessun fiore dovesse spuntare là intorno.