< Pagina:Deledda - Chiaroscuro.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.
12 chiaroscuro

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Deledda - Chiaroscuro.djvu{{padleft:18|3|0]]

Sabéra riattaccò la busta con la saliva, e ci mise su il ferro da stiro: adesso capiva tante cose, e si pentiva di non aver aperto prima le lettere del suo pigionale e di avergli prestato fede e usato rispetto.

— Hai veduto quel mascalzone? — domandò al piccolo Sidòre, quando questi si appoggiò al muro accanto alla sua porta.

— È dal Milese che gioca; è nero in viso come la polvere da sparo e diceva d’aver la febbre.

— Fammi il piacere, portagli questa lettera. Sai che non sta più qui? Io non voglio più vederlo neanche dipinto....

— Meglio! Così ti deciderai. Che pensiamo, Sabè? Ti rimodernerò tutta la casa, solleverò il pavimento che è tutto ammaccato, rifarò la scala nuova.... Che pensiamo, Sabè?

— Stasera ho mal di testa; sono molto arrabbiata. Domani sera ti darò una risposta decisiva.

Egli insisteva: ella ripeteva:

— Domani, domani.

L’indomani Cáralu ritornò: aveva la febbre e si mise a letto, e stringeva; denti minacciando col pugno un essere invisibile; ma ogni tanto rileggeva la lettera di sua madre e si calmava.

Sabéra si curvò sul viso ardente di lui.

— Mangia qualche cosa, anima mia, sta tranquillo, tutto passerà....

Egli la fissava attonito, quasi la vedesse

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.