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242 | la festa del cristo |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Deledda - Chiaroscuro.djvu{{padleft:248|3|0]] sbornia, e invece di aspettare il treno per scappare in America egli era andato nella sua tanca, aveva attortigliato e legato con un giunco come per le corse la coda al suo puledro morello, ed era corso alla cantoniera per farsi prestare la fisarmonica.
— Vengo per far penitenza, — disse ai pellegrini, un po’ sul serio, un po’ per ricambiare la loro beffa benevola.
— Ecco fatto il paio con Istevene, — mormorò compare Zua, sporgendosi verso compare Filìa.
Ma il vecchio prete andava, andava, fissando sul cielo argenteo le piramidi azzurre di Gonare.
Il sole spuntò pallido simile alla luna e i prati colmi d’acqua scintillarono come il mare; il suono della fisarmonica, lungo, nostalgico, pareva davvero il lamento d’uno che partiva per non tornare mai più nella terra natìa.
Ma col sorgere del sole la gente era tornata allegra; i due puledri, il rosso e il morello, nitrivano eccitandosi a vicenda e animando anche i compagni sonnolenti. Le donne avevan paura di scivolar di groppa, ma ridevano sotto le bende gialle dorate dal sole. I vecchi dicevano a Istevene e al suonatore di fisarmonica:
— E state lontani! Al diavolo questi seccatori!
Ma Istevene s’era messo a guardare una bella ragazza pallida che cavalcava taciturna in groppa al cavallo baio di un suo zio — quello che aveva raccontato la storia dell’avaro.