Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
la festa del cristo | 247 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Deledda - Chiaroscuro.djvu{{padleft:253|3|0]] ciò bene sul capo, la ripiegò su e non rispose.
Il puledro non si vedeva; ma ben presto riapparve, come il cavallo di Lusbè al cader della notte, e Istevene riprese a cavalcare dietro gli altri: ma la fanciulla pallida che aveva pensato a lui tutto il giorno e non aveva mai aperto bocca, si accorse che egli non era più quello della mattina. Pareva non conoscesse più nè lei nè gli altri compagni; andava in fila con essi come uno straniero e guardava lontano con gli occhi tali e quali a quelli di prete Filìa.
Così arrivarono a Galtellì: la luna illuminava le rovine del castello, giù sull’orizzonte cinereo, e più in qua il monte a cono pareva una tomba enorme tra gli avanzi dell’antica città e le casupole dirute. L’odore dell’euforbia e dei giunchi inondava l’aria; tutto era silenzio e solitudine.
Ma l’arrivo dei pellegrini animò il luogo; la fisarmonica riempì d’echi melanconici la sera, e gli abitanti del paesetto corsero ad invitare gli stranieri.
Un ricco vecchione amico dell’Orotellese volle a casa sua anche Istevene ed altri. Era un vecchio di novant’anni, una figura dell’Antico Testamento. La sua casa era cirocondata di orti recinti da fichi d’India, con qualche palmizio e qualche carrubo, ed era piena di donne, di fanciulli e di bambini.
Il più piccolo di questi, giallino e coi capelli neri, stava appoggiato al ginocchio del