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cattive compagnie 171

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Elia accettò. Un tempo egli era stato un giocatore disperato. Dunque andarono. Era una casa di lusso, frequentata da uomini ben vestiti, eleganti, da artisti, da studenti: l'amico negoziante additò ad Elia un signore alto e grosso, pallido ma impassibile, e un giovane biondo dai lunghi baffi: e gli disse che quei due erano un principe ed un ministro! Un uomo piccolo, che a giudicarne dai capelli lunghi e dalla barba a punta si sarebbe detto un artista, s'avvicinò e salutò il negoziante.

— Non giochi? — gli domandò.

— Stasera no! Siamo venuti solo per vedere, con quest'amico forestiere.

— E che ha paura di giocare? Si può perdere, ma si può anche vincere! — disse lo sconosciuto con accento beffardo.

Elia ebbe vergogna dei suoi buoni propositi. L'antica passione lo vinse.

— Posso anche giocare — disse con disprezzo. — E se anche perdo, non mi uccido! — E sedette al tavolo verde. Dapprima vinse, poi, come sempre accade, perdette il danaro vinto e il danaro suo, poi vinse ancora, perdette ancora. Rimase con dieci lire in moneta d'argento e con la busta che conteneva l'offerta per la Madonna di Pompei. Egli si ricordò di Pasqua che lo aspettava, sola, nell'albergo; vide davanti a sè la figura solenne del vescovo di Olbia. Che fare? Egli guardò con rabbia l'amico negoziante, che lo aveva condotto in quel luogo maledetto. Ma gli parve di non ricono-

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