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— Più simpatici, — egli riprende, placandosi nei suoi giudizi, — sono i vecchi, i nonnini, come la signora Dionisia li chiama; e sono infatti i nonni del marito, che hanno veduto sparire tutta la generazione dopo di loro, e restano lì, incartapecoriti, eterni come le mummie. Il vecchio coltiva i fiori, gli alberi; ha grandi uccelliere; si diverte persino a fabbricare mattoni per le aiuole del giardino: ma è buono, e tranne le sue impotenti sfuriate contro la gente di servizio e i mendicanti che suonano al cancello non fa altro di male. L’avarizia è la sua passione: passione forse contratta nel tempo della decadenza e della povertà della famiglia. La nonnina, invece, è mite, pietosa. È lei che cura il nipote; è lei ancora la lampada della triste casa: legge, si interessa a tutto; è viva. È quella che veramente ha sofferto per la disgrazia: se le avessero lasciato in casa la nipotina, invece di cacciarla in quell’orrido convento, forse...

Egli beve ancora: si ferma, intimidito lui stesso delle sue parole; e non ce n’è una, di queste parole, che io non sappia già a memoria, scolpite sulla mia anima come su una lapide mortuaria: eppure, nel sentirle da lui, da quella sua voce senza volontà, fredda e densa come un inchiostro di vernice, ho appunto la sensazione che egli ravvivi sulla lapide le parole già un po’ scolorite dal tempo. E ne provo un lieve senso

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