< Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu
Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta.

— 20 —

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu{{padleft:30|3|0]]altro, se non di lasciarmi venire qui, ogni tanto, per lamentarmi, per rivedere i tuoi occhi pietosi. Null’altro, ti domandavo. Ne convieni? Dì la verità, dì una buona volta la verità.

Adesso era lei, a piegare la testa; e il contatto dell’uomo in bufera, l’ardore del corpo febbricitante di lui, la stretta delle mani tenaci, le davano un senso di vertigine, di nausea fisica, ma anche di potenza e di libertà.

– Lasciami, Franco, lasciami. Tu forse hai ragione, ma tu sai meglio di me come queste cose vanno a finire. E poi non ti accorgi, disgraziato, che io sono vecchia? Vecchia, per te, per me, per la vita.

Egli non badò a queste ultime parole, già attaccato alle altre con esasperazione piangente.

– Come vanno a finire? No, tu non mi conosci; non mi hai conosciuto mai. Nessuno mi ha conosciuto, e tu meno degli altri. Io non ti avrei mai fatto male, e non te ne farò. E poi, e poi, che cosa è il male? È forse l’evitare il bene e il nostro bene era quello di intenderci, poiché Dio aveva permesso il nostro incontro; e lo aveva permesso ai limiti della morte, per farci risorgere tutti e due. Tu non hai voluto; tu hai preferito e preferisci la morte. Tu vivi con un morto: sola, peggio che sola.

– Lasciami, – ella impose, fissandolo con occhi duri: – io non sono sola, né vivo coi

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.