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Con la striglia impugnata nella destra, Fidele accarezzava colla sinistra il cavallo sulla groppa nera e lucente, e gli favellava fra i denti, sempre sbadigliando. A momenti emetteva dei grugniti, rideva, fischiava e imprecava.

Era di cattivo umore, senza dubbio, e non sapendo con chi sfogarsi, in mancanza di meglio, cercava di esprimere i suoi pensieri amari al cavallo.

— Sta fermo — diceva districandogli la criniera con un pettine di ferro, e accarezzandolo sempre. — Sta fermo, che il diavolo ti pettini! Fuggirai, fuggirai tra poco, non aver paura, bello mio. Il dottore ha detto: — Che sia pulito bene alle quattro. E poi gli metterai la sella e la gualdrappa.

— Dove va don Evéno? Magari vada all’inferno e non ritorni più!

Fallo cadere, bello mio, e che si rompa la testa, fallo, senti bene!

Quasi per trasmettere al cavallo le sue idee pietose, Fidele lo guardò nei grandi occhi foschi, leggermente violacei, poi tornò a sbadigliare e riprese il filo dei suoi pensieri.

— Mi vorrei come questo cavallo: sta meglio di me, povero servo! Cosa hai so-

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