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— Adesso il padrone sta assopito; ma zia Sirena vi prega di entrare in cucina.

Il frate entrò, passando il più lontano possibile dal cane che s’era steso al sole coi fianchi ansanti e non abbaiava più ma spalancava gli occhi iniettati di sangue: sedette su una panca dalla spalliera alta, tra il focolare e la finestruola e si guardò attorno.

Tutto era quieto e ordinato nella cucina ampia scura col soffitto di canne sostenuto da tre archi in rozza muratura che le davano quasi un aspetto di chiesa: il forno carico di vasi di rame, di ampolle, di candelieri, rappresentava l’altare; la fiamma nel focolare formato da una lastra di granito conficcata nel centro del pavimento, pareva scaturisse dalla pietra stessa, e il fumo che usciva in colonna da un buco nel tetto odorava d’incenso: e sopra la panca stava ancora un Salterio rilegato in nero, gonfio d’immagini sacre, di cui Bakis Zanche si serviva ogni prima domenica del mese per cantare i salmi accompagnando la messa nella chiesa di San Pietro delle Immagini.

La serva mora scomparve di nuovo; ma dopo qualche momento ecco la vecchia Sirena in persona.

— Dio sia lodato.

Il frate si alzò, col libro in mano.

La vecchia sembrava una gigantessa. L’ombra del fazzoletto disegnava come una maschera sul suo viso quadrato duro e immobile; ma gli occhi turchini dalle grandi pupille nere

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