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PROSA TERZA.

Non altramente, che s’è di sopra raccontato, dissipate le nebbie della mia tristezza, vidi la luce, e ripigliai forza a poter conoscere chi quella fosse, che venuta era per medicarmi; il perchè, tosto che rivolsi gli occhi a lei, e le affisai addosso lo sguardo, scorsi la mia balia Filosofia, nelle cui case m’era infino da giovanezza allevato, e le dissi: O maestra di tutte le virtù, discesa dalla più alta parte del cielo, che sei tu a fare venuta in queste solitudini del nostro esiglio? forse vuoi ancor tu essere colpevole a torto con esso meco, e da false calogne molestata e afflitta? O allievo mio, rispose ella, doveva io abbandonarti, e non pârtire insieme con esso teco quella soma, dividendo in due la fatica, la quale tu, per li carichi e colpe che a mia cagione dati ti sono, t’hai posta sopra le spalle? Sappi che alla Filosofia non era nè lecito nè ragionevole lasciarti andar solo, e non t’accompagnare dovunque tu andassi, essendo tu innocente: e’ parrebbe che io avessi dubitato di dovere essere accusata anch’io teco, e avutone paura, come di cosa nuova, e che mai più avvenuta non mi fosse. Pensi tu che questa sia la prima volta, che sia stata dagli uomini maligni e malvagi stimolata e posta in pericolo la sapienza? Dimmi un poco, non abbiamo noi ancora anticamente, innanzi che nascesse il nostro Platone, combattuto molte volte grandissimi combattimenti colla temerità della pazzía? E, vivente ancora esso Platone, non elesse Socrate suo maestro, standogli io sempre appresso, più tosto vincere morendo in-

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