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Lettera Terza | 15 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu{{padleft:22|3|0]]sepolcro un talento senza aver sospettato giammai di possederlo. Eccoti come Dante ha trionfato, e ancor regna. Qualche vera bellezza del suo poema, e un gregge infinito di settatori ha fatto il suo culto, e la sua divinità. E in vero chi può resistere per esempio all’evidenza di que’ bei versi?
- E come quei che con lena affannata
- uscito fuor del pelago alla riva,
- si volge all’acqua perigliosa, e guata...
Chi la mollezza, e il fresco non sente di quegli altri?
- Quale i fioretti dal notturno gelo
- Chinati e chiusi, poiché il Sol gl’imbianca,
- Si drizzan tutti aperti in loro stelo.
Il maestoso, e il terribile come nol vede in quell’entrata d’Inferno?
- Per me si va nella città dolente,
- Per me si va nell’eterno dolore,
- Per me si va tra la perduta gente;
- Giustizia mosse il mio alto Fattore etc.
E il doloroso, il disperato, può meglio sentirsi, che in que’ tre versi?
- Diverse lingue, orribili favelle,
- Parole di dolore, accenti d’ira,
- Voci alte e fioche e suon di man con elle.
Questo sì è un verso divino. Lo stesso dico del quadro, in cui dipigne l’Arsenal di Venezia, sicché proprio ti trovi là dentro, e delle apostrofi contro Pisani, e Genovesi ecc. E di tali interi ternarj ve n’ha sino ad un centinajo, se ben gli ho contati, tra cinque mille, che formano tutto il poema. I versi poi soli or sentenziosi, or dilicati, or piagnenti, or magnifici, e senza difetto, ardisco dire, che vanno a mille...