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52 | Lettera Ottava |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu{{padleft:59|3|0]]leggere poco dianzi, in cui nè dolce armonia facea sentirsi alcuna, nè concerto alcun musicale, e soave all’orecchio? E se il nativo linguaggio con la mescolanza corrompesi sempre de’ linguaggi stranieri, che tanto in Italia son familiari, come ponno eleganti Poeti tra gl’italiani formarsi? Queste cose dicea tra me stesso, quando veduta mi venne poco lontano un’altra adunanza di varie persone raccolta in un luogo su la pubblica via, che pieno era di libri, e di lettori. Erano i libri pur Gallici la più parte, e fui per credere più che mai, che Roma fosse alla fine in poter dei Galli venuta, nè sempre sì vigilanti, e propizie aver l’oche sue conservate il Tarpeo. Ammirava frattanto il gran numero de’ volumi, la lor vaga forma, ed ornata, e parvemi somma gloria dell’umano ingegno così rara invenzione, onde moltiplicavansi a sì poco costo, e con tanta facilità l’opere dotte, ed ingegnose. Ma gran danno pur sospettai poter venire alle lettere da ciò stesso, e massimamente alla poesia, che di pochi esser dee per poter esser gentile, ed illustre. Il fuoco poetico sempre fu sacro, e a pochissimi confidato come quello di Vesta. Or questa multiplicità per cui sino il volgo può tutte l’opere avere in mano, e ognun può farsi a talento Autore, e Poeta della nazione, non deve ella rendere popolare la poesia, che già col diletto trae seco ognuno, ed invita a cantare? Fatta comune alla moltitudine avvien senza dubbio, che il numero degli sciocchi prevalga, e rimangane oppressa la fama ed il nome degli ottimi troppo scarsi; laddove a’ pochi communicata, più fortemente a que’ pochi si fa sentire, che per lei nati sono. Nel qual pensiero mi confermai vedendo qua e là per le strade nelle mani medesime de’ plebei, e su