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Lettera Ottava | 53 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu{{padleft:60|3|0]]le scaffe de’ venditori più vili non altro che libri di versi, e leggendovi di passaggio i nomi di Venere e d’Imeneo, di Temi, e di Pallade, e dove una Laurea, dove le Nozze in gran lettere su i frontispizj, che il titolo di Raccolte portavano in fronte. Così pien di dubbiezze, e di maraviglia m’andava aggirando né sapea dove, e cercava pur di trovare ove legger potessi a mio bell’agio Poeti Italiani, senza impacciarmi de’ Gallici o de’ Britanni, a’ quali non sapeva accomodarmi l’idea. Udii finalmente parlarsi di biblioteca da cotai due, che in una gran porta entrando di magnifico albergo a salir si mettevano una marmorea scala, ed amplissima. Dietro lor m’avviai senza più, né più bello spettacolo mi venne veduto mai. Il numero e l’ordine, e lo splendor de’ volumi, e gli ornamenti medesimi di quelle sale mi richiamarono a mente la Palatina Biblioteca Apollinea d’Augusto. Mi volsi tosto alla classe de’ poeti, ove trovai di che contentare la mia curiosità largamente. Ve n’erano le migliaja di soli italiani, rimpetto a’ quali Greci e Latini assai pochi sembravano. Ma ben provveduto aveano alla nostra fama gli Stampatori, e i Commentatori, che ci aveano multiplicati in infinite edizioni, e a gran Tomi ridotti. Della sola mia Eneida ben cento edizioni, le più in gran volumi pesanti vi numerai, chiedendo a me stesso come quel mio poema nato dall’ozio, ed al piacer destinato potesse esser divenuto argomento di noja, e ingombro ambizioso di Biblioteche.
Ma a dirvi, o Arcadi, come in tal luogo venissi dipoi sovente, e quanti leggessivi italiani Poeti, e quai giudicj ne udissi da chi frequentava, che molti n’avea quell’albergo, e infine quai ne facessi io medesimo dopo