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— L’eternità — disse Paolo, ridendo piano, piano, mentre mangiava l’uva passa come un bimbo goloso, accostandosi il grappolo alla bocca e strappando gli acini coi piccoli denti.
— L’eternità. Sicuro, c’è l’eternità. Perchè te ne vai Minnìa? resta lì... (Ma la ragazza, annoiata, andò via). Cosa dici tu, Giovanna Era, c’è o no l’eternità? Bachisia Era, c’è o no?
— C’è — risposero le ospiti.
— C’è, ma voi intanto non pensate all’eternità.
— È inutile pensarci... — disse Paolo, alzandosi e pulendosi la bocca col tovagliuolo. Egli doveva andarsene; s’era indugiato troppo per quelle due donne che, dopo tutto, lo interessavano soltanto perchè dovevano ancora pagarlo.
— C’è gente che mi aspetta nello studio, c’è gente. Ci rivedremo; voi non partirete.
— Domani mattina all’alba...
— Macchè! Voi resterete... — diss’egli con voce indifferente, indossando il suo immenso soprabito: e quando egli ebbe indossato il soprabito, zia Bachisia lo fissò coi suoi occhietti verdi e pensò che il piccolo dottore, con quel paludamento, pareva una magìa, cioè una di quelle figurine ridicole eppur terribili che le maliarde fabbricano a scopo di magìa.
Egli andò via, e dopo di lui uscì dalla camera anche la signorina Grazia, che non aveva mai parlato durante la cena, e zio Efes Maria si accomodò di traverso sulla sedia, accavalcò le gambe e cominciò a leggere la «Nuova Sardegna».
In cucina s’udirono le ragazze ridere forte: e fra