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Fascio Terzo. 271

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  Quì s’armato di ferro avvien ch’io mieta
  L’inutil ramo al palmite Leneo,
  Veggio al cader di vanità ferite
  Sotto maestra man piagner la Vite.
Quando arde poi sù la stellata mole
  Di Leon Cleoneo Giuba crinita,
  Vestesi il Campo mio d’un biondo Sole,
  E del Sole i color l’arista imita;
  A l’hor la falce mia mieter la suole,
  In faccia à chi ne crea, l’esche di vita;
  E pria che in man d’horrida Parca inciampi,
  Sembro a’ sostegni miei Parca de’ Campi.
Qual’hor di State in frà gl’ardori estremi
  Tempra Erigone pia fervide ambasce
  Al nato humor de’ gravidi racemi
  Con doglio prigionier formo le fasce.
  Mentre de l’uve i crespi globi, e scemi
  De la pioggia l’humor gonfia, e li pasce,
  Miro quanto in un Bacco acqua contrasta,
  Che in vite il crea, se ne’ cristalli il guasta.
Se il gran Pianeta il lucido governo
  Da l’Arciero Centauro in Capra muta,
  Di gelata stagion pronto à lo scherno
  Fuggo trà Lari miei l’aura temuta.
  Quì m’affido à le fiamme, in fin che il Verno
  Hà per trimestre Età chioma canuta;
  E un legno al fin, cui la mia Vita è peso,

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