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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Gazzetta Musicale di Milano, 1842.djvu{{padleft:42|3|0]]prese il desiderio vivissimo di riparare al diletto della sua educazione. Dotato dalla natura di indole poetica e persuaso che il solo istinto artistico non basta a guidare gli ingegni alle grandi creazioni, ma vuolsi la cultura dello spirito che lo sviluppi e lo aiuti nei suoi sforzi, ei si diede con molto ardore a procacciarsi quell'istruzione letteraria che a torto tanti moderni compositori reputano poco meno che superflua al loro stato, il quale essi considerano di questo modo come una professione materiale o poco più. Gluck non aveva la mente cosi piccola, e si dedicò con fervore allo studio di alcune lingue viventi non solo ma anche della latina, si procacciò l’amicizia e la relazione di parecchi distinti letterati del suo tempo, e alla loro conversazione ed alla lettura di molte classiche opere, attinse delle idee assai più vaste e ardite di quelle che fino al suo tempo eransi adottate dai pigri intelletti intorno al grande principio dell'unione della musica colla poesia. Mercè le sue dotte elucubrazioni ei non fu forse tardo ad avvisare come certe arie e certi pezzi d’effetto cui i compositori italiani del suo tempo e i loro esclusivi ammiratori consideravano come il più sublime prodotto della musica, mentre vantar potevano il solo prestigio dell’eleganza delle forme e della soavità della melodia, ad altro non eran buone che a velicare gradevolmente l’orecchio o tutt’al più a svegliare nell’animo delle deboli e inde terminiate emozioni. Allorché taluno gli faceva parola di qualche aria di voga che pur dicevasi patetica: «è graziosa senza dubbio, ei rispondeva; ma la non è cosa che rimescoli il sangue!» Riferiamo questo detto di Gluck perchè ne pare opportuno a tratteggiare l’indole speciale del robusto suo ingegno e il forte sentire che lo fece essere lo scrittore musicale più eminentemente tragico che mai finora si vanti nei fasti del melodramma. E noi ricordiamo ancora il fuoco e l’entusiasmo veramente artistico con cui l’autore della Norma, il quale un profondo studio aveva fatto delle partizioni di Gluck e meditatone l’alto e severo stile, manifestava il suo culto a quel genio potente attribuendo al medesimo il merito incomparabile d’avere scossa dalla sua languida mollezza la musa dei maestri del suo tempo troppo facili a blandire il gusto capriccioso e il sensualismo materiale della moltitudine. In parte oseremmo dire, fondati anche sull’opinione di Bellini da noi non dimenticata, che Gluck indusse nel melodramma tragico la medesima riforma cui l’Alfieri assoggettar volle la tragedia italiana tanto effeminata dai poveri imitatori del Trissino e del Maffei. Entrambi richiamar vollero lo stile alla severità energica, concisa, vibrata che meglio s’addice alla pittura delle passioni; entrambi, bandendo dalle forme gli oziosi riempitivi e i futili lenocinii, non mirarono che a dar robustezza ai loro concetti e a scuotere gli animi con impressioni rapide, continuate, incalzanti. Altri punti di rassomiglianza tra l’autore dell’Orfeo e dell'Alceste e il grande Astigiano noi non dubiteremmo di poter scontrare, se in questi cenni, anziché una notizia biografica risguardante le artistiche vicende di Gluck, noi ci fossimo proposto l’esame della tempra del suo ingegno. Nelle Opere che Gluck ebbe a scrivere per l’Italia, ben egli più di quanto si facesse per lo innanzi si era più o meno studiato ad esprimere nelle sue arie il senso delle parole e il carattere delle situazioni; ma solo in Inghilterra, ove gli spiriti più riflessivi parvero a lui più atti degli italiani ad accogliere e comprendere una simile riforma, accolse il primo pensiero di una musica veramente drammatica. E per avventura ei non si ingannava nel credere che il pubblico cui rapivano all’entusiasmo le meravigliose bellezze del teatro di Shakspeare avesse, meglio d’ogni altro, a comprendere ed apprezzare i suoi sforzi tendenti ad elevare l’arte musicale al vero splendore a lei serbato. E qui non crediamo inopportuno osservare che i maggiori veramente mirabili sviluppi del melodramma si effettuarono più liberi e vennero più prontamente accolti là dove, per la più perfetta civiltà e cultura della nazione, gli spiriti erano meglio educati alle grandi bellezze della letteratura drammatica. Weber, Beethowen, Mozart, questi grandi campioni del melodramma romantico non ebbero mai altrove tanto plauso come nella patria di Schiller e di Goethe: Rossini scrisse il Guglielmo Tell nell’epoca in cui Parigi possedeva più di mille autori drammatici, tra i quali Delavigne, Dumas e Vittore Hugo; l’Italia nostra cominciò a ingiugnere a’suoi compositori una più stretta osservanza dell'alta estetica teatrale dopo che nauseata dalle mollezze e dalle assurdità de’ librettisti metastasiani, educata da Alfieri, da Monti e da Foscolo ad un forte sentire, erasi venuta a poco a poco persuadendo che anche la scena musicale può essere elevata ad emulare i trionfi della musa tragica. - Ma tutto ciò sia detto per digressione, chè il pensiero da noi qui esposto di volo potrebbe di per sè solo essere tema a molte e molto importanti riflessioni. Ora proseguiamo con Gluck. Oltre le due Opere per iscrivere le quali era egli stato chiamato a Londra, un appaltatore, vilmente, avido di mettere a traffico l’ingegno del maestro da lui prezzolato, gli ingiugneva di scrivere un cosi detto Pasticcio, mosso dalla speranza di poter fare una buona speculazione sul capriccioso gusto della moltitudine che, a suo credere, sarebbe stata rapita da quella stolta profanazione. Ma per meglio comprendere ciò è duopo avvertire che per pasticcio intendevasi a’ tempi di Gluck una specie di azione lirica alla quale si veniano adattando alla meglio dei pezzi di musica già acclamati in altre Opere, e tolti da queste senza riguardo ad altro che al loro merito meramente musicale. Il perchè Gluck, (il quale forse in quell’occasione si trovò suo malgrado costretto dal bisogno di denaro a commettere quel delitto di lesa arte che a ’dì nostri molti compositori, ed anche de’ primi, considerano come la regola ordinaria della loro professione) scelse da tutti i suoi spartiti le arie che maggiori e più costanti applausi aveano ottenuto, e col migliore artifizio che potè le incastrò nel poema che gli era stato dato, e che se non isbagliammo versava sulla favola di Piramo e Tisbe. Se non che, come avviene talora che dal male nasce il bene, da codesta specie di atto vandalico ispirato non da altro che dalle strettezze del maestro forzato a far olocausto del suo buon senso alla mercenaria avidità dell’impresario, si originò in lui la convinzione più severa defluita importanza dell’arte sua. Alla rappresentazione dell’ingiuntogli sciagurato pasticcio egli ebbe a provar meraviglia forse non disgiunta da un segreto piacere a vedere come i pezzi che sì grande effetto prodotto avevano nelle Opere per le quali erano stati scritti, ne mancavano al tutto trasportati sopra altri concetti poetici, e applicati ad una diversa azione. Questo fatto che ad uno spirito mediocre non avrebbe detto nulla, fu come un lampo di luce al forte e meditativo suo ingegno. Ponderandolo attentamente ei venne a trarne per corollario quell’assioma dell’arte che noi al presente consideriamo come vieto e poco men che comune, ma la cui verità a’ giorni di Gluck a malapena era sospettata dai più eletti spiriti, e il volgo ignaro intravvedeva incerto e dubbioso: vai a dire che ogni musica per quanto musicalmente parlando possa giudicarsi bene composta ed elaborata, perde metà del suo pregio, se scritta che sia per la scena, non si accorda nel generale concetto e nell’espression parziale col senso drammatico della situazione eli ella deve colorire e degli affetti cui debbe prestare il suo linguaggio. Da questa prima deduzione ei scese ad altre di un significato non meno luminoso; non doversi cioè sperare di poter dare alla musica tutta la energia e il prestigio di che è suscettiva se non se in quanto ella si sposi ad una poesia animata e semplice che con verità dipinga de’ sentimenti naturali e ben determinati; potere la musica mutarsi in un linguaggio sensibile proprio a ritrarre tutti i movimenti del cuore umano, ma a ciò esser duopo che il canto segua esattamente il ritmo e gli accenti della parola e che gli stranienti die lo accompagnano concorrano colla loro espressione propria o a rinvigorire quella del canto od a contrastare con essa, secondoché è voluto dalla situazione e dalle parole". Intanto la sua già grande riputazione lo faceva richiamare in Italia. A Roma dava la Clemenza di Tito e l'Antigone nel 1756; scriveva la Clelia per l’apertura di un nuovo teatro; in seguito si trasferiva a Parma ove produceva Bauci e Filomene, e l'Aristeo. Nelle Opere or menzionate recò Gluck molto innanzi la riforma del suo stile. Ogni novella produzione della sua penna era un passo di più eli’ ei moveva sulla strada già tracciata nella sua mente. Però, ben egli sapeva che indarno sarebbesi adoperato a far compiuta la meditata rivoluzione musicale, se non collegavasi alla difficile impresa con un poeta che sapesse comprendere l’alta portata de’ suoi pensieri e fosse disposto ad assecondarlo e avesse la capacità e la dottrina necessarie a tanfi uopo. Era egli intimamente convinto che i poemi del nostro Metastasio, quantunque pieni delle maggiori bellezze, non solo per quanto è della poesia, ma ed anco per la verità e vivezza del dialogo, per il taglio di certe arie e in ispecie de’ duetti, pure non si prestavano all’ampio sviluppo dei grandi effetti tragicomusicali di cui egli credeva suscettivo il melodramma. E principalmente ci sentiva la necessità di intrecciare nell’azione i cori, e anzi appoggiar ad essi gran parte di questa; persuaso come era che nulla vi ha che meglio si presti alle grandi e forti ispirazioni della musica teatrale quanto i sentimenti manifestati a un sol tratto da una moltitudine di persone in istato di passione. Fu ventura eli’ ei si scontrasse col poeta Calzabigi, il quale, già pensato avendo da sè alle imperfezioni dell’Opera italiana, prestamente si penetrò de’ medésimi suoi principii, e fu oltremodo soddisfatto di poter giovare ad un compositore il quale si proponeva di addurre a compimento una clamorosa rivoluzione in una importantissima

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