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CANTO QUINTO. 147

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LIX.


  A ragion, dico, al tumido Gernando
Fiaccò le corna del superbo orgoglio.
Sol, s’egli errò, fu nell’oblio del bando:
468Ciò ben mi pesa, ed a lodar nol toglio.
Tacque, e disse Goffredo: Or vada errando,
E porti risse altrove: io quì non voglio
Che sparga seme tu di nuove liti:
472Deh, per Dio, sian gli sdegni anco finiti.

LX.


  Di procurare il suo soccorso intanto
Non cessò mai l’ingannatrice rea.
Pregava il giorno, e ponea in uso quanto
476L’arte, e l’ingegno, e la beltà potea.
Ma poi, quando stendendo il fosco manto
La notte in Occidente il dì chiudea,
Fra duo suoi cavalieri e due matrone,
480Ricovrava in disparte al padiglione.

LXI.


  Ma benchè sia mastra d’inganni, e i suoi
Modi gentili, e le parole accorte,
E bella sì, che ’l ciel prima nè poi
484Altrui non diè maggior bellezza in sorte;
Talchè del campo i più famosi eroi
Ha presi d’un piacer tenace e forte;
Non è però, ch’all’esca de’ diletti
488Il pio Goffredo lusingando alletti.

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