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CANTO SESTO. 169

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XXIX.


  Questi un fu di color, cui dianzi accese
Di gir contra il Pagano alto desio:
Pur cedette a Tancredi, e ’n sella ascese
228Fra gli altri, che ’l seguiro, e seco uscío.
Or veggendo sue voglie altrove intese,
E starne lui quasi al pugnar restío;
Prende, giovine audace e impaziente,
232L’occasione offerta avidamente.

XXX.


  E veloce così, che tigre, o pardo
Va men ratto talor per la foresta,
Corre a ferir il Saracin gagliardo,
236Che d’altra parte la gran lancia arresta.
Si scuote allor Tancredi, e dal suo tardo
Pensier, quasi da un sonno, alfin si desta:
E grida ei ben: la pugna è mia; rimanti.
240Ma troppo Ottone è già trascorso innanti.

XXXI.


  Onde si ferma, e d’ira e di dispetto
Avvampa dentro, e fuor qual fiamma è rosso;
Perch’ad onta si reca, ed a difetto,
244Ch’altri si sia primiero in giostra mosso.
Ma intanto a mezzo il corso in su l’elmetto
Dal giovin forte è il Saracin percosso.
Egli all’incontro a lui col ferro nudo
248Fende l’usbergo, e pria rompe lo scudo.

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