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CANTO SETTIMO. 237

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CXIII.


  Non può far quel magnanimo ch’almeno
Sia lor fuga più tarda, o più raccolta:
Chè non ha la paura arte, nè freno,
900Nè pregar quì, nè comandar s’ascolta.
Il pio Buglion, che i suoi pensieri appieno
Vede Fortuna a favorir rivolta,
Segue della vittoria il lieto corso,
904E invia novello ai vincitor soccorso.

CXIV.


  E se non che non era il dì che scritto
Dio negli eterni suoi decreti avea;
Quest’era forse il dì che ’l campo invitto,
908Delle sante fatiche al fin giungea.
Ma la schiera infernal che in quel conflitto
La tirannide sua cader vedea;
Sendole ciò permesso, in un momento
912L’aria in nube ristrinse, e mosse il vento.

CXV.


  Dagli occhj de’ mortali un negro velo
Rapisce il giorno e ’l Sole: e par ch’avvampi
Negro, via più ch’orror d’inferno, il Cielo;
916Così fiammeggia infra baleni e lampi.
Fremono i tuoni, e pioggia accolta in gelo
Si versa, e i paschi abbatte, e inonda i campi:
Schianta i rami il gran turbo, e par che crolli
920Non pur le querce, ma le rocche, e i colli.

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