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CANTO OTTAVO. 249

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XXIII.


  La vita nò, ma la virtù sostenta
Quel cadavero indomito e feroce.
Ripercuote percosso, e non s’allenta;180Ma quanto offeso è più, tanto più noce:
Quando ecco, furiando, a lui s’avventa
Uom grande c’ha sembiante e guardo atroce,
E dopo lunga ed ostinata guerra,
184Con l’aita di molti, alfin l’atterra.

XXIV.


  Cade il Garzone invitto (ahi caso amaro!)
Nè v’è fra noi chi vendicare il possa.
Voi chiamo in testimonio, o del mio caro
188Signor sangue ben sparso e nobil’ossa,
Ch’allor non fui della mia vita avaro,
Nè schivai ferro, nè schivai percossa;
E se piaciuto pur fosse là sopra
192Ch’io vi morissi, il meritai con l’opra.

XXV.


  Fra gli estinti compagni io sol cadei
Vivo: nè vivo forse è chi mi pensi.
Nè de’ nemici più cosa saprei
196Ridir, sì tutti avea sopiti i sensi.
Ma poichè tornò il lume agli occhj miei,
Ch’eran d’atra caligine condensi,
Notte mi parve; ed allo sguardo fioco
200S’offerse il vacillar d’un picciol foco.

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